STORIE DEL NOVECENTO
Coppa Davis: magliette rosse contro il regime
Santiago del Cile, sabato 18 dicembre 1976. Sul campo, Patricio Cornejo e Jaime Fillol, in tenuta bianca. Di fronte, Adriano Panatta e Paolo Bertolucci, pantaloncini bianchi e maglietta rossa. È il doppio della finale di Coppa Davis. Il giorno prima, Barazzutti e Panatta hanno vinto i singolari: l’Italia è sul 2 a 0, manca un solo punto.
La Davis, il più prestigioso trofeo mondiale a squadre, è la consacrazione del tennis in Italia, ormai uno sport di massa con circa 17mila campi e 180mila tesserati. Eppure, la Rai trasmette le partite in differita e i toni sono bassi. Anzi, polemiche infuocate hanno spaccato il Paese. Nei mesi precedenti, l’Italia ha sconfitto 5 a 0 Polonia e Jugoslavia e 4 a 0 la Svezia. Poi, l’impresa a Wimbledon: 4 a 1 alla Gran Bretagna con un grande Tonino Zugarelli. Infine, a settembre, la battaglia contro l’Australia delle leggende, Tony Roche e John Newcombe: 3 a 2.
Manca solo il Cile. Ed è un problema: l’11 settembre 1973 il Colpo di Stato del generale Augusto Pinochet ha rovesciato il governo democraticamente eletto di Salvador Allende e istituito una feroce dittatura. Una mattanza: nello Stadio “Nacional” sono stati rinchiusi, torturati e uccisi migliaia di oppositori. In Italia il golpe ha provocato sdegno e preoccupazione. Una parte della società si è mobilitata e anche il mondo dello spettacolo: da Lucio Dalla a Edoardo Bennato, da Dario Fo a Francesco Guccini. Grazie all’ambasciatore Tomaso De Vergottini, poi, molti esuli hanno trovato asilo ed Enrico Berlinguer ha lanciato l’idea del “compromesso storico” proprio ragionando sui fatti del Cile. Così, il dibattito è riesploso: è opportuno giocare? Partecipare legittima la dittatura? Boicottare la finale danneggerebbe Pinochet? Il Cile, peraltro, si è qualificato senza giocare: lo sport è un medium di massa, veicola informazioni e incide nella costruzione dell’opinione pubblica, e l’Unione Sovietica si è rifiutata di disputare la semifinale. Anche l’India nel 1975 non è scesa in campo contro il Sudafrica dell’Apartheid.
È un vero terremoto politico: il governo di Giulio Andreotti non prende posizione, la sinistra è contraria, la Rai trasmette una serissima tavola rotonda moderata da Arrigo Petacco. Ne parlano tutti: Domenico Modugno scrive una ballata per il «no», ma per Enzo Biagi «ci sono armi migliori delle racchette per abbattere le dittature».
Nelle manifestazioni si grida «non si giocano volée/con il boia Pinochet!». O ancora: «Non si mandano i tennisti/a giocare coi fascisti!», e «Panatta milionario/Pinochet sanguinario!». Il clima è rovente: «brutto fascista ammazziamo te e la tua famiglia!», urlano al capitano Nicola Pietrangeli, e Corrado Barazzutti per precauzione toglie il nome dal citofono di casa. Nonostante le minacce, i giocatori vogliono andare a Santiago. Tutti, compreso Panatta che non ha mai nascosto le sue simpatie di sinistra. La situazione si sblocca qualche giorno prima: il Partito comunista cileno, in clandestinità, contatta quello italiano. Meglio giocare: Pinochet sfrutta l’isolamento per compattare il popolo e creare un clima ultranazionalistico in appoggio al regime. Regalare la Coppa alla sua propaganda sarebbe peggio.
Si gioca. Ma la notte del doppio Panatta ha una idea: «Domani giochiamo con la maglietta rossa», dice a Bertolucci. «Hai visto la gente come sta. Diamo un segnale, no?». Paolo capisce: «Veniamo in Cile a mandare questi messaggi? È pericoloso», risponde, ma accetta.
Ha ragione: è una palese provocazione, un segno di solidarietà alle vittime. E rossi sono i fazzoletti delle donne che denunciano la scomparsa dei loro mariti e dei loro figli. La partita fu senza storia: 3-6, 6-2, 9-7, 6-3. Solo nell’ultimo set Panatta e Bertolucci indossarono la maglia azzurra. In realtà, però, le magliette rosse passarono sotto silenzio. Se ne parlò solo molti anni dopo: «Se nessuno capì fu grave. Se qualcuno capì e fece finta di niente, fu ancora più grave», ha detto Panatta. Intanto, quel giorno Pinochet non era nemmeno allo Stadio. Lui, forse, lo aveva capito.
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