ABBASSO
I nostri figli in un mondo a noi sconosciuto
Una miniserie tv apre gli occhi sugli adolescenti del 21esimo secolo

Un ragazzo accusato di omicidio. La polizia che cerca elementi a supporto dell’indagine. Gli psicologi chiamati a gestire il percorso del ragazzo. Una famiglia che si ritrova improvvisamente all’inferno. Quattro elementi tipici della realtà di oggi che ritroviamo sui giornali analizzati nel dettaglio ogniqualvolta accade una tragedia del genere. Poi ci sono le immagini che ci portano in modo diretto all’interno del dramma: le osserviamo in tv, assistiamo a ore di analisi di esperti, registriamo le evoluzioni del caso e poi cambiamo canale e torniamo alle nostre vite. Ci siamo tutti trovati un’infinità di volte proiettati in questa dinamica, al punto forse da esserne assuefatti perché, si sa, il male ci attrae ma quando esso diventa routine, nella mente scatta un meccanismo di pigra accettazione che ci aiuta ad elaborare il rifiuto. In fondo siamo brave persone e non conosciamo nessuno al quale è accaduto qualcosa del genere, sono statistiche infinitesimali che ci aiutano a proteggerci nel nostro alveo di quieta normalità. Poi esce una miniserie tv come “Adolescence” e l’impatto è devastante. I concetti alla base di questa produzione britannica sono quelli esposti all’inizio. Il ragazzo ha 13 anni, la polizia è quella di Doncaster, cittadina nel cuore dell’Inghilterra, e la famiglia è uguale a mille altre, due genitori che si vogliono bene, un’altra figlia al liceo, niente di speciale. Perché il dibattito attorno a questa serie di Netflix sembra aver sollevato molti più interrogativi dei tanti casi di cronaca nera di questi anni? Il segreto sta senza dubbio in una messa in scena sconvolgente, grazie a un espediente tecnico geniale come il fatto di girare ogni episodio in un’unica ripresa, con la telecamera che scandaglia i personaggi e ne coglie ogni sfumatura con un realismo mai visto in un prodotto del genere. E ad aggiungere il carico da 90 sulle corde dell’emozione è la recitazione impressionante degli attori, uno più bravo dell’altro, a cominciare dal giovane protagonista. Ma, al di là degli aspetti meramente cinematografici, quello che più colpisce chi si trova ad assistere ad “Adolescence” da adulto è la sensazione via via più chiara di non avere la minima idea di chi siano gli adolescenti di oggi. E di provare un po’ di paura. Stephen Graham, l’interprete del padre di Jamie e autore della serie, ha raccontato di avere tratto l’idea da un evento di cronaca che lo ha portato a riflettere sul fatto che, da ragazzo, quando era chiuso nella sua stanza faceva le classiche cose, disegnava, leggeva, studiava. I ragazzi di oggi, dietro quella porta, accendono il computer ed entrano in un mondo al quale noi non abbiamo alcun modo di accedere. Questo perché la loro generazione è nata nell’epoca del web, mentre quella dei loro genitori ci si è trovata proiettata a forza senza avere il minimo strumento per comprenderla, figuriamoci spiegarla ai propri figli. E così qualunque tentativo di comprendere i ragazzi è inevitabilmente fallimentare perché, semplicemente, noi e loro viviamo su pianeti che non comunicano. E ciò che più sconvolge nell’assistere a questo miracolo televisivo, è la sensazione che ormai sia troppo tardi e che l’unica speranza è che questi ragazzi, quando saranno genitori, abbiano più strumenti di noi per spiegare ai loro figli come gestire input che a noi oggi appaiono sempre più terrificanti.
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