IL PITTORE
“Morandi 1890-1964”: la mostra a Palazzo Reale
Il percorso con 120 opere per evidenziare i temi prediletti e le tecniche dell’artista

Nel silenzio monacale dello studio di via Fondazza a Bologna praticava la sua arte calma e immobile, lontana dal clamore dei movimenti artistici a lui contemporanei. Un sostanziale isolamento, quello di Giorgio Morandi (Bologna, 1890-1964), che non è mai stato sinonimo di esclusione o disinformazione, quanto di fedeltà a un preciso modo di sentire e percepire il mondo circostante, senza mai preoccuparsi di apparire fuori moda o ripetitivo.
«La sua solitudine era una scelta lucida, finalizzata alla meditazione e alla ricerca», racconta Maria Cristina Bandera, curatrice della mostra di Palazzo Reale Morandi 1890-1964, dedicata all’artista per celebrare il rapporto elettivo tra la città e il pittore bolognese. Erano lombardi o vivevano a Milano i primi grandi collezionisti di Morandi come Vitali, Feroldi, Scheiwiller, Valdameri, De Angeli, Jesi, Jucker, Boschi Di Stefano, Vismara - parte delle cui raccolte furono donate alla città - e milanese era la Galleria del Milione, con la quale il pittore intrattenne un rapporto privilegiato.
Le sue nature morte, “paesaggi inameni” come li definiva il critico e amico Roberto Longhi, rigorose e perfettamente calibrate, sono il punto di partenza per «spiare l’infinito» afferma Bandera.
«Morandi parte dalla realtà per astrarla, e le bottiglie e gli oggetti che trasferisce su tela non sono i “vuoti a rendere” di cui parlavano i detrattori, ma volumi architettonici, torri che misurano le altezze e gli spazi, figure disposte su un palcoscenico».
In mostra circa 120 lavori dell’artista costellano un percorso suddiviso in 34 sezioni, seguendo un criterio cronologico con accostamenti mirati e inediti che documentano l’evoluzione stilistica e il modus operandi del pittore, nella variazione dei temi prescelti - natura morta, paesaggio, fiori e solo raramente figure - e delle tecniche - pittura, acquaforte e acquerello.
Il percorso inizia con il 1913, dove è evidente l’influenza delle avanguardie - una personale assimilazione della nuova spazialità cubista lungo la traiettoria Giotto-Cézanne - e si conclude nel 1963 con una pittura rarefatta, portata all’estremo della verosimiglianza formale, sintesi di uno scavo cinquantennale nella realtà in cui la complessità del mondo si tramuta in luce, in sabbia, rosa polvere e azzurri cenere, bianchi lattiginosi e tiepidi gialli, oggetti fragili soffiati nel vetro, che potrebbero rompersi da un’istante all’altro.
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