STORIE DI NATURA
Quando l’uomo è causa di estinzione di animali
La scomparsa di una specie altera le funzionalità degli ecosistemi. La sfida degli uomini è trovare soluzioni per invertire la rotta
Le estinzioni indotte dall’uomo rappresentano uno dei problemi più gravi per la biodiversità globale, in particolare in questo periodo recente che viene definito Antropocene. Questo termine è stato proposto dal chimico e premio Nobel olandese Paul Crutzen e dall’ecologo americano Eugene Stoermer all’inizio degli anni 2000, e intende sottolineare come le modifiche indotte dall’uomo siano diventate a tutti gli effetti un analogo funzionale di una modifica geologica, ossia talmente radicale da modificare profondamente il sistema Terra. Non c’è unanime consenso sulla data di inizio dell’Antropocene, ma si tende a collocare la sua partenza a circa 10.000 anni fa, con la nascita dell’agricoltura e la conseguente trasformazione degli ecosistemi naturali, sebbene la più grande accelerazione nelle modifiche antropiche la si registri a partire dalla Rivoluzione Industriale della fine del XVIII secolo.
Le estinzioni per cause antropiche si verificano quando l’attività umana, in modo diretto o indiretto, causa la scomparsa definitiva di una specie. Nella maggior parte dei casi, un’estinzione viene causata dalla distruzione o alterazione degli habitat, o dall’introduzione di specie invasive, nonché dal sovrasfruttamento delle risorse naturali e dall’inquinamento. Gli effetti della scomparsa di una specie possono essere devastanti non solo (e ovviamente...) per le specie coinvolte, ma anche perché la scomparsa di una specie comporta un’alterazione delle funzionalità a lungo termine degli ecosistemi. Non dimentichiamoci infatti che ogni specie ha uno specifico ruolo (attraverso le interazioni con altri organismi e con le componenti non viventi) nel garantire un ottimale funzionamento delle dinamiche e degli equilibri degli ecosistemi. Anche l’Europa e l’Italia sono state interessate da fenomeni di estinzione causati dall’uomo, sebbene meno noti rispetto a quelli di altre regioni.
Un caso emblematico è rappresentato dal leone europeo (Panthera leo europaea). Sebbene non sia ancora del tutto chiaro se si trattasse effettivamente di una sottospecie del leone asiatico oppure di una specie a sé stante, il leone europeo almeno sino al 100 d.C. era presente in Europa. Era diffuso in tutta l’attuale Grecia, in Spagna, nella Francia del Sud, nei Balcani, nel Caucaso e anche in Nord Italia. Si ipotizza che i leoni utilizzati dai romani nelle venationes (i combattimenti tra bestie, o di bestie contro uomini, per lo più schiavi, che si svolgevano nei circhi) in pratica fossero tutti leoni europei. Si narra che per celebrare il trionfo di Traiano sui Daci (102 d.C.), furono uccisi oltre 11.000 animali. Il leone europeo è stato, per quanto il caso sia poco noto, uno dei primi grandi mammiferi a essere spinto all’estinzione dalle attività umane.
Anche l’iconico uro (Bos primigenius), un grande bovino selvatico con le corna robuste e dotate di una caratteristica forma a lira, che vagava per le foreste europee, inclusa l’Italia, ci ha definitivamente lasciato nel 1627, quando l’ultimo esemplare morì in Polonia. Questo animale ha lasciato un’impronta culturale profonda nella storia dei nostri progenitori: infatti è spessissimo raffigurato nell’arte rupestre, come nelle famosissime grotte di Lascaux in Francia, considerate la “Cappella Sistina della preistoria”. L’uro è considerato l’antenato delle moderne vacche domestiche (Bos taurus), addomesticate a partire da circa 9.000 anni fa, ed è ben noto dai paleontologi grazie al gran numero di resti fossili o sub-fossili. La sottospecie europea (Bos primigenius primigenius) è vissuta sino in tempi recenti a differenza della sottospecie africana (Bos primigenius africanus) e di quella asiatica (Bos primigenius namadicus) che si sono estinte nella preistoria. Nel XVI secolo c’erano ancora uri che vagavano in alcuni territori compresi tra Bulgaria, Transilvania, Moldavia e soprattutto nella Polonia centrale. In quest’ultima località, la gestione degli uri è stata per molti secoli ben organizzata, e ha permesso alla specie di sopravvivere per lungo tempo. I grandi erbivori però appartenevano esclusivamente alla famiglia reale e venivano quindi protetti perché solo i reali o i nobili avevano il diritto di cacciarli e il bracconaggio poteva essere punito addirittura con la morte.
Non scordiamoci inoltre del famoso cervo di Padre David (Elaphurus davidianus) originario delle zone subtropicali acquitrinose cinesi, ed estinto in natura da circa 8 secoli. Gli ultimi esemplari sopravvissero nel parco imperiale di Pechino. La specie venne dedicata a Padre Armand David, un missionario francese che operava in Cina, che per primo ne portò alcuni reperti in Europa, nel XIX secolo, che consentirono di descrivere la specie, prima sconosciuta agli europei. Successivamente alcuni esemplari vivi furono inviati in vari paesi europei, ma fu grazie alla riproduzione nel parco dell'abbazia di Woburn Abbey dove, unico in Europa, il duca di Bedford era riuscito a riprodurre questo cervo, che sopravvisse sino ai giorni nostri: infatti nel 1986, alcuni cervi furono reintrodotti in Cina, nella riserva di Dafeng (Cina orientale). Attualmente, con grande soddisfazione, gli esemplari di cervo di Padre David sono tornati a ripopolare la regione cinese di Jiangsu.
La nostra sfida, da umani oggi consapevoli delle capacità di modificazioni ambientali, e proiettati nel futuro, è proprio quella di mettere in campo tutte la nostre capacità per trovare soluzioni ottimali per invertire la rotta ed evitare le estinzioni, anche tentando in extremis di ripristinare e ricostruire le popolazioni naturali... non è mai troppo tardi per le soluzioni brillanti e di interesse collettivo.
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