L’ESPOSIZIONE
Vittore Frattini: «Le mie linee-luce sono vibrazioni del cuore»
A Comabbio sono in mostra una trentina tra i lavori dell’artista. «Fin da bambino ho respirato l’ambiente vivace e creativo di Varese»
Quando lo raggiungiamo nello studio a Sant’Ambrogio di Varese, in un pomeriggio di primo autunno, troviamo Vittore Frattini con il pennello in mano, intento a completare uno dei suoi Shangai da esporre alla mostra Vittore Frattini. Lumen. La linea, l’orizzonte e l’infinito, a cura di Lorella Giudici, che inaugura sabato 22 novembre (ore 17) nella Sala Lucio Fontana a Comabbio. A ragione, Philippe Daverio, nella monografia edita in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’artista, definiva la personalità di Vittore con l’espressione “Nulla dies sine linea”. «È il ritratto di mio padre – conferma il figlio Max Frattini –. Non passa giorno in cui non tracci una linea, un segno di confine tra cielo e terra, l’orizzonte». Alla mostra di Comabbio saranno esposte più di trenta opere di Frattini. A eccezione di un Lumen del 1976, sono tutti lavori recenti, testimonianza dell’urgenza della pittura e della necessità di riflettere sulla propria poetica, senza mai abbandonarla, ma evolvendosi continuamente. Come spiega la curatrice della mostra i Lumen sono «stele di tessuto, strette e lunghe (ma anche tonde o quadrangolari), in origine lasciate al naturale, nel loro delicato color canapa, poi composte con stoffe dalle tinte sempre più sature e accese, sulle quali l’artista ha dipinto flussi di linee di differenti colori. [...]. Sono spazi in cui il segno diventa luce, traiettoria da seguire per lasciare il contingente e affidarsi al sogno, all’altrove». Insieme alle sfere in vetro pieno di Murano, progettate da Vittore e realizzate con la sua regia da un maestro vetraio dell’isola lagunare, ci saranno – spiega l’artista – «anche pianeti su tela, di diametri diversi, dai trenta agli ottanta centimetri, che saranno composti come in un planetario immaginario, una installazione disegnata da mia figlia Sara che ha studiato scenografia a Brera».
Vittore, lei dal 1974 persegue una sua personalissima poetica, basata su linea, luce, orizzonte e infinito...
«Sono partito dal post-informale degli anni tra il 1955 e il 1960, attratto anche da effetti di fenomeni naturali (temporali, fulmini). A poco a poco ho cercato di eliminare dalla tessitura dell’opera la trama del gesto aggressivo creandone volontariamente uno ex-novo. Ho un quadro del 1956 che ha già una linea di orizzonte alta e mossa ed è una anticipazione delle mie opere più recenti. Quella era già la mia voce. Dagli anni Settanta, artisti americani come Noland, Newman e Morris Louis, mi hanno aiutato a concepire una materia più fresca; successivamente, quasi per gioco, provai dei colori acrilici luminescenti e ne risultò così una visione anche notturna dell’opera: i Lumen, appunto. Non sono mancate – ovviamente – le inquietudini, i dubbi, la fatica del cercare, ma il superamento di una concezione esistenziale negativa dell’uomo e il recupero di esperienze essenziali sia di fenomeni naturali sia di quelli forniti, tanto per esemplificare, da apparecchiature elettroniche che consentono di tradurre graficamente le vibrazioni stesse del nostro cuore che si fanno linee-luce, può forse costituire un esito non banale».
L’incontro con Lucio Fontana...
«La prima volta che l’ho incontrato – lo racconto in catalogo – è stato quando, insieme a mia moglie Silvana, accettai l’invito di Fontana a visitare il suo studio di Corso Monforte, a Milano. Entrando, fui subito rapito dalla forza e dalla bellezza delle sue opere: tele che sembravano respirare, spazi lacerati che aprivano orizzonti nuovi. Ma, oltre all’arte, ciò che mi colpì fu la sua umanità sincera, la spontaneità calorosa con cui ci accolse. Poco tempo dopo, il 23 ottobre 1967, ebbi il privilegio di essere ospite nella sua casa di Comabbio. In quell’occasione, Fontana mi donò una copia del celebre Manifesto Blanco, che conservo ancora oggi come segno tangibile della sua amicizia e stima. Il legame con lui aveva però radici più profonde. Fontana era amico di mio padre Angelo: frequentavano le stesse fonderie milanesi, e li ricordo insieme, nel suo studio, in un’atmosfera di complicità e rispetto reciproco».
Vittore e Varese...
«Sono varesino già nel nome, Vittore, il santo patrono della città. Ma devo a mio padre Angelo il mio rapporto particolare con Varese: fin da bambino ne ho respirato l’ambiente vivace e creativo. Mio padre era molto amico di Flaminio Bertoni, fin dal liceo artistico (ora intitolato ad Angelo Frattini, ndr). Nel 1958 a Parigi ci ha fatto girare su quelle macchine meravigliose che disegnava. Poi c’erano Giuseppe Montanari, Ernesto Radaelli, si trovavano ogni giorno a bere il caffè o l’aperitivo da Zamberletti, a volte si univa anche Piero Chiara, poi andavano al caffè Socrate e lì trovavano Gianni Santuccio (a cui è stato poi intitolato il teatrino di via Sacco) e il commendator Giovanni Borghi. Io e Bruno Lauzi eravamo ragazzini e ci piaceva guardarli con il naso appiccicato alla vetrina. E poi Floriano Bodini e Renato Guttuso, insomma, il nostro territorio era vivacissimo e fervido, è stato fondamentale per me».
© Riproduzione Riservata


