LA CURIOSITA’
Zerocalcare e la «fidanzatina di Busto Arsizio»
Nel podcast del fumettista un aneddoto legato al Varesotto
«Ke terun». Due parole ricevute su una chat di Messenger oltre 23 anni fa da Zerocalcare, la superstar del fumetto italiano. A scriverle quella che lui stesso definisce «la sua fidanzatina di Busto Arsizio» di quando aveva 18 anni nella sua ultima, godibilissima fatica: un podcast gratuito per il settimanale “Internazionale” attraverso il quale dà vita ad una personalissima “elaborazione del Natale” in cinque tappe. Dall’antivigilia fino al 27 dicembre.
Michele (Rech di cognome) racconta con il suo inconfondibile accento romano di come fosse convinto che «il cenone della vigilia di Natale a casa “de mi nonna” era la declinazione della mia famiglia di una cosa che facevano tutti quello che lo riconoscono come istituzione borghese, a prescindere dal trasporto che “ce mettono” nel celebrare compleanno di Gesù Cristo». Una convinzione a prova di bomba. Venuta meno proprio per colpa di quella conversazione via chat sull’asse Roma-Busto. «Quando le scrissi con tutta la naturalezza possibile che quella sera sarei andato a fare “er cenone” da mia nonna, mi rispose con due parole soltanto, secche e asciutte, e rese ancora più asciutte dal fatto che lei scriveva la acca con la kappa: “Ke terun”. Che terrone? A me che so “de Roma”?», ricorda il quarantunenne di Rebibbia che, dopo il fumetto e le serie di animazione come “Strappare lungo i bordi”), colpisce nel segno anche con questo ispirato Podcast. «Non mi era mai stato detta una cosa del genere», confida non senza la sua proverbiale ironia. «Come? Sono sempre stato contro la discriminazione territoriale, però con spirito altruistico. Come un padre di famiglia benevolo che ti guarda dall’alto e ti dice: “E dai non vi insultate con la nebbia e il colera. Nun fate i regazzini…”. Capite? Io ero una specie di arbitro tra Nord e Sud, perché a chi sarebbe mai venuto in mente di dirci terroni a noi che siamo di Roma, la capitale, il centro de tutto?». Invece, «in quelle due parole cariche di disprezzo “me” sono sentito come se il mio festeggiare il Natale il 24 sera “me” collocasse in un segmento di popolazione primitivo, dedito a usanze arcaiche e deprecabili. Praticamente era come se gli avessi scritto: “Stasera vado a infibulà mia cugina…”. E lei mi rispondeva: “Ancora con l’infibulazione? Ke terun”. Ecco ho scoperto così che spesso al Nord questa cosa non “se fa”. Si fa direttamente il pranzo il giorno di Natale». Un evento divisivo di suo confida l’autore assurto a voce generazionale, «come tutte le feste comandate per chi è figlio di genitori separati».
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