LA MOSTRA
Gli Etruschi e gli artisti italiani del ‘900
Alla Fondazione Rovati a Milano una selezione di opere iconiche

Ritratto di Inge, l’amata moglie di Giacomo Manzù, dialoga con un canopo, un vaso ossuario dal volto umano tipico di Chiusi, risalente all’VI secolo a.C. Le figure terrose di Massimo Campigli sono affiancate a hydre, mentre l’askos zoomorfo, combinazione di recipiente e animale, diventa per Picasso un campo privilegiato di sperimentazione. Finissimi orecchini a pettine di Fausto Melotti sono esposti accanto all’oreficeria etrusca. Sono tante le suggestioni, i dialoghi e i confronti tra antico e moderno, tra l’arte del popolo etrusco e gli artisti del Novecento che si apprezzano nella mostra “Etruschi del Novecento” che, dopo la prima tappa al Mart di Rovereto, è ora in corso alla Fondazione Luigi Rovati di Milano, che possiede una straordinaria raccolta di arte etrusca.
La mostra, a cura di Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci, Alessandra Tiddi, è allestita tra il piano ipogeo, uno spazio sotterraneo composto da tre sale circolari e una ellittica ispirate ai tumuli etruschi di Cerveteri, e il piano nobile. Qui, in particolare, la sala Warhol diventa il centro di documentazione, dove si ripercorre la fortuna degli Etruschi attraverso rari volumi d’arte, riviste, opere grafiche e manifesti dedicati alla cultura etrusca pubblicati tra la fine dell’Ottocento e gli anni Ottanta del Novecento. La fascinazione di studiosi e artisti nei confronti di questo popolo misterioso ha il momento cardine nel 1916, con il ritrovamento dell’Apollo a Veio, e vede altre due tappe fondamentali: il 1955, con la Mostra dell’arte e della civiltà etrusca e il 1985, con l’anno etrusco tenutosi in Toscana. A partire dalla scoperta, a Veio, della famosa scultura in terracotta alta quasi due metri (oggi al Museo di Villa Giulia a Roma), nasce infatti una vera e propria etruscomania. A sorprendere, del linguaggio artistico etrusco, è, per usare le parole dell’archeologo Bianchi Bandinelli, il fatto che «l’artista etrusco, a differenza dell’artista greco, non ha mai avuto la preoccupazione di creare un archetipo di bellezza. Tende, prima di tutto, all’espressione. Cerca il carattere piuttosto che la bellezza, l’insieme espressivo piuttosto che la perfezione dei dettagli». Numerosi artisti intrapresero un personale Grand Tour, declinato in chiave etrusca, tra Volterra, Tarquinia, Cerveteri e Chiusi. Le pitture tombali di Tarquinia, le urne di alabastro di Volterra e le sculture di bronzo, come la Chimera di Arezzo, catturarono l’immaginazione di molti, dando vita a opere d’arte che reimmaginavano queste antiche testimonianze in chiave contemporanea. Pablo Picasso e Ardengo Soffici, ad esempio, esplorarono musei e siti archeologici etruschi alla ricerca di ispirazione, Arturo Martini, trascorse molto tempo al Museo di Villa Giulia, «tra le terracotte [sic] etrusche, palpandole con mano gelosa, contemplandole per svelarne il silenzio». Se Marino Marini diceva di sé «io sono il vero etrusco», Massimo Campigli ricordava l’esperienza nelle sale di Villa Giulia, affermando: «nei miei quadri entrò una pagana felicità tanto nello spirito dei soggetti che nello spirito del lavoro che si fece più libero e lirico». Anche nella produzione ceramica del Novecento sono forti le ispirazioni alla cultura etrusca: i buccheri nella loro nera perfezione, erano apprezzati da Gio Ponti in quanto validi elementi di arredo nella casa moderna. Lo stesso Ponti tradusse per la manifattura Richard-Ginori la cista bronzea in moderno ornamento ceramico, proponendone negli anni varianti plastiche e pittoriche. Gli fece eco Guido Andloviz, direttore della Società Ceramica Italiana di Laveno, con una soluzione dai volumi essenziali e preziose cromie, riproponendo le urne cinerarie biconiche, prediligendo gli esemplari dal collo alto e con motivi decorativi geometrici a rilievo.
© Riproduzione Riservata