L’INTERVISTA
«I miei 74 giorni nelle prigioni iraniane»
Il cerrese Alessandro Roversi fu arrestato nel 1987

«Rivedere in televisione il portone bianco del carcere di Evin risveglia incubi che mi perseguiteranno per tutta la vita. Sono passati 38 anni da quando lasciai quel carcere, ma quello che ho visto nelle prigioni iraniane non potrà mai dimenticarlo».
Alessandro Roversi compirà 63 anni la prossima settimana. Abita con la moglie e i figli a Cerro Maggiore, in Italia forse è uno dei pochi che ha potuto capire fino in fondo la difficilissima situazione di Cecilia Sala, la giornalista rimasta per 21 giorni nel carcere di Evin, a Teheran. Perché nel lontano 1987 anche Roversi è stato in quel carcere, e prima ancora in una prigione forse ancora peggiore, per un totale di 74 giorni in mano ai Pasdaran, i “guardiani della rivoluzione” di Khomeini.
I motivi dell’arresto di Sala non sono ancora chiari, a lei invece cosa era successo?
«Quello che è successo a Sala non mi sorprende, neanche io dopo tanto tempo posso dire perché sia stato arrestato e in cambio di cosa sia stato liberato...».
Cominciamo dall’inizio, lei nel 1987 cosa ci faceva in Iran?
«In Iran ero arrivato nel 1985, fresco di diploma di perito elettronico. Il gruppo Gie stava costruendo una centrale elettrica a Bandar Abbas, sullo stretto di Hormùz. Avete presente la centrale Enel di Turbigo? Quello era l’impianto gemello. Io mi occupavo dei sistemi elettrici, per due anni ho vissuto nella “guest house” del cantiere: eravamo 200 italiani, con gli operai iraniani avevamo un ottimo rapporto, la paga era buona».
E poi?
«Poi nel febbraio 1987 il mio capo mi chiede di fare qualche foto attorno all’impianto per documentare la situazione del cantiere. Io non ero un fotografo, ma alla fine dovevo solo documentare lo stato dei luoghi. Ci muovemmo in due, sempre accompagnati dai Pasdaran. E dopo aver scattato 70 foto consegnai loro i rullini».
E cosa c’entra questo con l’arresto?
«Lo scoprii molto dopo. Il 30 aprile alle 22 eravamo nella guest house, ed ecco che arriva di corsa un sorvegliante, italiano pure lui: “Roversi, ci sono i Pasdaran che ti cercano”. Senza avere idea del perché andai nel mio alloggio e trovai due miliziani armati di pistola calibro 9 che buttavano tutto all’aria. “Lui deve venire con noi, dobbiamo interrogarlo”, dicevano. I dirigenti del cantiere e della sicurezza si opponevano: “Qui è territorio italiano, lui non va da nessuna parte!”. Ma quelli insistevano: “In un modo o nell’altro lui deve venire con noi”. Erano armati, la tensione era alle stelle: con l’incoscienza e l’ottimismo dei vent’anni pensai: vado, mi interrogano e torno, tanto non ho fatto nulla. Appena fuori mi bendarono e mi fecero salire sul sedile posteriore di un’auto. Guidarono per 10, 15 minuti, poi arrivammo in quello che solo dopo seppi essere un “carcere investigativo”».
Intervista completa sulla Prealpina in edicola domenica 12 gennaio
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