NICOLAS BALLARIO
Il nuovo modo di guardare l’arte

Nicolas Ballario è un noto volto televisivo che affronta in modo disinvolto, quasi scanzonato, temi di cultura e arte. Affrontiamo alcune questioni sull’uso dei media per la comunicazione artistico-culturale. In primis, quali attitudini sono richieste per “fare televisione” di divulgazione culturale?
«La capacità di non prendersi troppo sul serio e tanto, tanto studio. Devi capire e conoscere bene l’argomento di cui parli, perché solo così si ha la sicurezza di tentare strade nuove per raccontarle».
Cosa differenzia i mezzi di comunicazione “classici” (televisione, radio, riviste) dai social (Instagram, Twitter)?
«Sono media alternativi. Nei media classici hai un editore, e hai l’impressione di giocare in una squadra. L’ambizione è quella di essere la tessera che fa la differenza. Sui social invece il rischio è diventare autoreferenziali. Sul mio profilo Instagram, parlo poco di cose che faccio e molto di cose che vedo».
Nelle sue trasmissioni c’è qualcosa di autobiografico?
«C’è il mio punto di vista e quindi la mia storia. La cosa bella è contaminarsi il più possibile».
Quale è il “dovere” di un conduttore? E cosa accomuna le sue attività divulgative?
«Ho una regola precisa: ciò che faccio deve piacere sia al pubblico, sia agli addetti ai lavori. Non è una ricerca del consenso a tutti i costi. La prima cosa serve per lasciare traccia di quello che fai, la seconda è il marchio di qualità. Non basta farsi capire da tutti, devi farlo usando un linguaggio che apprezzano anche gli esperti. Se ci riesci, hai vinto. Io ci provo».
Cosa può dare alla società la divulgazione artistico-culturale?
«La confidenza con i mondi di cui parliamo. La cultura non va banalizzata, è sbagliato dire che è per tutti: è per chi ha voglia di approfondire. Non mi interessa catturare per forza l’attenzione di chi se ne sbatte, voglio invece dire ai curiosi di non avere paura, che il teatro, i musei non mordono».
Parliamo ora di alcune questioni più generali sull’arte contemporanea. In cinque parole: che cosa è l’arte per l’uomo?
«Un modo per farsi domande».
Che cosa pensa delle cosiddette mostre blockbuster? Appuntamenti culturali o intrattenimento nascostamente commerciale?
«È palesemente commerciale e non c’è niente di male. La cultura è anche impresa e se le grandi mostre blockbuster funzionano, è bene che continuino a esserci. Danno lavoro a tanta gente e avvicinano le persone all’arte. Sicuramente a una piccola percentuale di queste persone viene la voglia di uscire dalla comfort zone dei grandi nomi e cercare altro».
Ha affermato che l’arte contemporanea è più complessa e difficile delle altre. Perché?
«L’arte contemporanea è narrazione. Gli artisti devono in qualche modo garantire una narrazione concettuale e potente, una sintesi lessicale che deve agire su più piani. Questi piani sono complessi e non dobbiamo avere paura di dire che al primo sguardo un letto disfatto in un museo ci fa ridere. Dopo, però, se abbiamo voglia di approfondire scopriamo che quello è il letto di Tracey Emin, che con quell’opera ci sta raccontando una storia fatta di sesso, droghe, solitudine. Magari ci immedesimiamo anche. Però per farlo dobbiamo studiare chi è l’artista e sforzarci di comprendere che cosa ci vuole dire. Non sopporto chi dice che l’arte deve essere ‘immediata’. Se in un mondo dove tutto è superficiale, c’è finalmente qualcosa che ti costringe ad impegnarti per capire, non è male. Lo sforzo intellettuale è tutto».
Cosa accomuna le diverse forme d’arte contemporanea?
«La volontà di mettersi a nudo».
Quali tendenze del vasto panorama artistico odierno ritiene più fruttifere?
«Quelle che affrontano i grandi temi del nostro tempo. La vera sfida per l’arte è quella di scippare alla banalità dell’informazione di massa il racconto del mondo».
Due artisti il cui lavoro considera degno d’essere seguito; li definisca con due aggettivi.
«Francesco Vezzoli: colto ed esplosivo. Cindy Sherman: camaleontica e inquieta».
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