NEL 1945
Alfred Hichcock e l’incubo dell’Olocausto

Alla fine di giugno del 1945 Alfred Hitchcock, turbato e pensieroso, si chiuse nella sua suite del lussuoso Hotel Claridge’s, nel pieno centro di Londra.
Il regista era già una star di Hollywood, ma il suo vecchio amico Sidney Bernstein gli aveva chiesto aiuto. Così, in nave, alloggiato “in un dormitorio con altre trenta persone”, lo aveva raggiunto.
La guerra era finita da un mese e Bernstein, uno tra i maggiori produttori e fondatore della London Film Society, lavorava al Quartier Generale degli Alleati. Da giorni nel suo ufficio arrivavano le immagini dei cineoperatori che avevano accompagnato le truppe sin dallo sbarco in Normandia.
Pellicole di cameraman improvvisati, spesso semplici soldati, ma letteralmente incredibili: mostravano la liberazione di undici campi di concentramento e di sterminio, da Bergen-Belsen a Dachau, a Buchenwald, Mauthausen, Ebensee, fino aD Auschwitz.
Il volto della vera anima del nazismo, in presa diretta. Bernstein lo aveva subito compreso e si era rivolto alla Divisione Guerra Psicologica: bisognava montare un film-documentario “destinato in maniera specifica ai tedeschi, che fosse la prova inattaccabile delle loro atrocità”.
Giorno dopo giorno, però, il materiale cresceva, sempre più agghiacciante e inimmaginabile. Bernstein e i suoi collaboratori avevano solo tre mesi per la consegna: così, per assemblare il tutto, aveva chiamato Hitchcock.
Il “maestro del brivido” arrivò, e si chiuse in una piccola sala di proiezione a Soho. Fu tra i primi al mondo a vedere quelle immagini strazianti: pile di cadaveri scavati dalle piaghe e dalla fame. Volti maciullati dagli aguzzini. Corpi di bambini e anziani scaricati nelle fosse comuni come manichini. Per non descrivere i vivi, o quello che ne rimaneva, le montagne di capelli dei cremati nei forni, di bambole delle bambine ammazzate.
Hitchcock, pur così abituato all’horror e all’ansia – le caratteristiche dei suoi film – rimase sconvolto da quell’orrore, e rimase per una settimana nella sua suite. Come ricordò il suo film-editor Peter Tanner, passeggiava su e giù domandandosi: «come possiamo renderlo convincente?». Aveva già capito tutto: quelle scene erano così disumane, impossibili, che non tutti ci avrebbero creduto.
Lavorò sei settimane, tra giugno e luglio. Decise, ad esempio, di usare molte panoramiche, «perché nessuno potesse dire che quelle immagini erano state manipolate per falsificare la realtà». Poi, bisognava far vedere in primo piano i morti e quello che rimaneva dei vivi.
Ancora: si dovevano usare le mappe, per mostrare come i tedeschi vivessero tranquilli vicino all’orrore e all’odore della morte. Insomma, tutto: quelle pellicole spiegavano perché si fosse combattuta una guerra catastrofica. E la giustificavano, senza alcuna discussione.
Alla fine di luglio ripartì, mentre Bernstein continuò a lavorare, ma il progetto fu presto abbandonato. “Memory of the Camps” – un capolavoro incompleto – finì dimenticato negli archivi dell’Imperial War Museum, catalogato con l’anonima sigla F3080.
Cosa era successo? Il 4 agosto il Ministero degli esteri inglese aveva comunicato che ormai «la politica in Germania è interamente rivolta a incoraggiare, stimolare e interessare i tedeschi a uscire dall’apatia, e le persone vicine al comandante in capo dicono: “Niente film sulle atrocità”».
Iniziava già la guerra fredda, e bisognava tenere la Germania nel campo occidentale contro l’Unione Sovietica. Era meglio, allora, dimenticare.
Ma anche se li ignoriamo, i fatti non cessano di esistere, diceva Aldous Huxley. E, prima o poi, la Storia si prende le sue rivincite: così nel 2014 il film fu ritrovato e completato, con il titolo «Night Will Fall».
È sconvolgente e termina così: «Se il mondo non imparerà ciò che insegnano queste immagini calerà la notte. Ma in grazia di Dio noi che vivremo, impareremo».
Anche a questo serve “Il giorno della memoria”, che si celebra dal 2000 ogni anno il 27 gennaio, il giorno della liberazione di Auschwitz. Senza retorica, perché non ce ne è alcun bisogno.
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