CONTROPASSATO PROSSIMO
Joe Petrosino, un eroe italiano

Palermo, Piazza Marina, venerdì 12 marzo 1909. Un uomo esce dal ristorante e si dirige verso il capolinea del tram. Sono le 20.45.
Un’ombra gli si avvicina e spara. L’uomo, colpito alla schiena, al volto e alla gola, si accascia mentre il suo cappello “a bombetta” rotola per terra e i pochi presenti scappano.
Arriva la polizia e nella giacca trova i documenti. La vittima è Joe Petrosino, un tenente di New York arrivato a Palermo da pochi giorni. Petrosino era famoso e importante: il “terrore dei mafiosi di New York”, si diceva. Nato a Padula (Salerno) nel 1860, emigrato con suo padre e tre fratelli a Little Italy nel 1873, aveva lavorato sodo prima come lustrascarpe, poi come strillone dei giornali. Nel frattempo studiava l’inglese così, a 18 anni, ottenuta la cittadinanza americana, era riuscito a farsi assumere come netturbino.
Negli Stati Uniti a inizio secolo erano arrivati almeno quattro milioni di italiani: “Dago” era l’insulto più frequente che veniva loro rivolto dagli “americani”. Significava forse “They Go”, cioè “finalmente se ne vanno”. Oppure derivava da Dagger, coltello: indicava gente abituata a usarlo.
A Little Italy ne vivevano circa mezzo milione, e in quel ghetto brulicante e povero, i gangster della Mano Nera – una sorta di prima versione di Cosa Nostra – prosperavano tra racket, “protezione”, estorsioni e omicidi. Little Italy viveva sotto una cappa di terrore. Tuttavia, la polizia brancolava nel buio: gli agenti, perlopiù irlandesi, non capivano una parola di italiano. Così il capo del Dipartimento Theodore Roosevelt – destinato a diventare presidente nel 1901 e fino al 1909 – ebbe l’idea giusta: bisognava assumere gli italiani.
Joe Petrosino, nel frattempo, aveva cominciato a fare l’informatore, a spiegare alla polizia le regole e il sistema del racket della mafia. Lui capiva non solo la lingua, ma i gesti, i silenzi, gli atteggiamenti.
Era bravo, onesto, incorruttibile e nell’ottobre del 1883 fu assunto: divisa, pistola, manganello. Numero di matricola 285: probabilmente il primo agente italiano di New York.
Joe iniziò a pattugliare Little Italy. Impossibile non notarlo: basso, tarchiato, duro, con il viso butterato e una “fisionomia da macellaio”, come scrisse il giornalista Luigi Barzini. In breve, un mastino implacabile dai metodi particolari: i lividi di chi finiva sotto interrogatorio con lui duravano giorni. Fece un lavoro eccezionale: arrestò oltre tremila delinquenti. Poi, da detective, nel 1905 comandò l’Italian Squad: il primo “pool antimafia” della storia, cinque poliziotti dedicati esclusivamente alla malavita italiana di New York.
Chiuse casi emblematici: il grande Enrico Caruso, reduce da un concerto, venne minacciato di morte. Voleva pagare, ma Petrosino lo convinse a incontrare gli estorsori con una borsa piena di carta straccia e li arrestò tutti. O ancora, nel 1904, un cadavere fu ritrovato dentro un barile: un delitto orribile che finì su tutti i giornali, risolto con metodi alla Sherlock Holmes.
Ormai Petrosino era diventato il nemico giurato della mafia e aveva capito come sconfiggerla: bisognava trovare le fedine penali dei mafiosi nei loro paesi di origine per arrestarli o espellerli. Così, ottenne il permesso per tornare in Italia in segreto.
Arrivò a Palermo il 28 febbraio, e scoprì – disse al console americano William Bishop – «cose da far rizzare i capelli».
Purtroppo, però, il «New York Herald» pubblicò le ragioni del suo viaggio. La copertura era saltata, nondimeno rifiutò la scorta e continuò a girare disarmato. Così, il 12 marzo venne ammazzato.
La notizia fece il giro del mondo ma i colpevoli, ovviamente, non furono trovati. Tutti però sapevano: dietro il delitto c’era il primo grande padrino della mafia, Vito Cascio Ferro.
Il 12 aprile 1909 ai suoi funerali a New York parteciparono duecentomila persone, davanti alle massime autorità e al Dipartimento di polizia in parata. Era morto un martire italiano, il simbolo del riscatto di milioni di emigrati che iniziavano a non essere più solo dei “Dago”.
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