CONTROPASSATO PROSSIMO
Korean Airlines 007: «Obiettivo distrutto»

Primo settembre 1983. Il volo Korean Airlines 007 da New York a Seul, partito da 13 ore con 269 persone a bordo, dopo un rifornimento ad Anchorage in Alaska era ormai sul Mar del Giappone. Dormivano quasi tutti: erano le 3 e 26 di notte.
D’improvviso si sentì un’esplosione: «Decompressione rapida! Discesa a uno-zero- mille!», urlarono dalla cabina. L’aereo iniziò una discesa di emergenza, ma i piloti non sapevano cosa fosse successo.
Il clima internazionale, in quel 1983, era al culmine della tensione, e la politica del presidente Ronald Reagan molto aggressiva: l’Urss era “un impero del male”, aveva dichiarato pochi mesi prima. E ancora, “la marcia della libertà e della democrazia lascerà il marxismo-leninismo nella pattumiera della Storia”, sosteneva, perché “l’Occidente trascenderà il comunismo come un bizzarro capitolo della storia umana”.
Intanto, le spese militari crescevano fino al 6,5% del Pil: gli Stati Uniti attaccavano i sandinisti in Nicaragua, aiutavano i mujaheddin in Afghanistan e si preparavano a invadere l’isola di Grenada per rovesciare il governo filocubano.
Non bastava, perché in aprile Reagan aveva lanciato la Strategic Defense Initiative: uno “scudo spaziale” – come fu subito ribattezzato – che avrebbe intercettato e distrutto i missili intercontinentali russi.
Le “Guerre stellari” erano impossibili, ma la sola minaccia di alterare “l’equilibrio del terrore” e di poter sferrare il colpo decisivo preoccupava non poco Mosca.
Naturalmente non vi era alcuna intenzione di attaccare, ma l’assalto ideologico di Reagan esasperava la paranoia sovietica, dove l’anziano Jury Andropov aveva da poco preso il posto di Breznev.
Il Cremlino, infatti, era in evidente difficoltà: l’intervento in Afghanistan si era trasformato in una guerra lunga e costosa e in Polonia il sindacato Solidarnosc mostrava le crepe del regime. L’economia, poi, era in stagnazione mentre le spese per la difesa si mangiavano il 20% del Pil. Così, Andropov aveva messo in guardia contro “l’acuirsi senza precedenti” del confronto tra Est e Ovest e, dall’inizio dell’anno, aveva ordinato l’operazione “Rjan”: l’intera la rete delle spie del Kgb in allerta per scoprire ogni minimo indizio di un attacco nucleare a sorpresa contro l’Urss.
In questo quadro dunque il Boeing 007 si stava avvicinando a Seul. La rotta passava vicino all’Unione Sovietica, ma il comandante Chun Byung-In era un veterano con 10 mila e 600 ore di volo alle spalle.
Invece, nelle ultime due ore aveva sconfinato nello spazio aereo sovietico di ben 560 chilometri. Soprattutto, aveva sorvolato la penisola della Kamchatka e l’isola di Sachalin: aree fondamentali del dispositivo difensivo dell’Urss, sede di basi missilistiche strategiche.
Come era possibile? I piloti pensavano di essere sulla rotta giusta ma – probabilmente – ad Anchorage avevano impostato male il sistema di navigazione e il computer di bordo. Un tragico errore.
E vi era di più: quella notte sul confine stava volando anche un vero aereo-spia americano, l’Airforce RC135. I sovietici lo stavano cercando da ore. Così, intercettato l’ignaro Boeing coreano, i caccia si alzarono in volo. Non c’era tempo per pensare: stava per lasciare lo spazio sovietico, doveva essere l’aereo-spia e bisognava fermarlo. Alle 3 e 26 di notte, la tragedia: a bordo del suo SU-15Tm, il maggiore Gennadij Osipovich lanciò due missili e l’aereo precipitò da oltre 10 mila metri nel mare del Giappone. “Obiettivo distrutto”, riferì ai suoi superiori.
L’ondata di indignazione di tutto il mondo sommerse i sovietici: Reagan parlò di “un atto terroristico” e manifestò sentimenti di “ira, incredulità e profonda tristezza”. Mosca non rispose per giorni, poi sostenne la tesi dell’aereo-spia e di una “grossa provocazione americana”. In realtà si trattò di un tragico malinteso: quello era il clima della Guerra Fredda, e la morte di 269 innocenti lo aveva drammaticamente dimostrato.
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