LA CRISI
Quando l’Italia disse «No» all’America

Leon Klinghoffer, un ebreo newyorkese commerciante di elettrodomestici, aveva 69 anni. Colpito da un ictus e costretto sulla carrozzella, voleva comunque celebrare il suo anniversario di matrimonio con una crociera nel Mediterraneo. Così, il 5 ottobre del 1985, si imbarcò a Genova con la moglie Myriam sulla «Achille Lauro», una gran nave: 200 metri di lunghezza, 320 membri di equipaggio, 700 passeggeri.
Due giorni dopo, la crociera fece tappa al Cairo. Alle 13.07 quattro passeggeri armati di mitra e pistole entrarono nel salone da pranzo e iniziarono a sparare. Due ore dopo, alle 15, il marconista lanciò l’S.O.S.: «Qui l’Achille Lauro. Siamo stati dirottati da un numero imprecisato di palestinesi: chiedono la liberazione di 50 loro compagni detenuti in Israele».
Altrimenti avrebbero fatto esplodere la nave: una settimana prima gli israeliani avevano bombardato il Quartier generale dell’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) a Tunisi, e quella era la risposta. Iniziò così la più complessa crisi diplomatica del Paese: Maxwell Raab, ambasciatore americano a Roma, chiarì subito che Ronald Reagan non avrebbe accettato alcuna trattativa. L’«Achille Lauro», intanto, virò verso la Siria, che non concesse l’autorizzazione all’attracco. I terroristi, allora, presero i passaporti dei passeggeri e trovarono quello di Klinghoffer.
La vittima perfetta: ebreo e americano. Leon, freddato con due colpi, in fronte e al petto, fu gettato in mare.
Il governo Craxi voleva evitare spargimenti di sangue: la crisi andava risolta con la diplomazia anche perché, «ufficialmente», nessuno sapeva dell’omicidio. In breve, allora, l’ambasciatore italiano in Egitto Vincenzo Magliuolo firmò un salvacondotto per i terroristi, che tornarono al Cairo. La nave era libera, e i palestinesi salirono su un Boeing 737 diretto verso la sede dell’Olp a Tunisi.
Washington però voleva gli assassini: due caccia intercettarono il Boeing e lo costrinsero ad atterrare alla base Nato di Sigonella, in Sicilia. La mezzanotte di venerdì 11 ottobre era appena passata. La crisi si era ingarbugliata: chi doveva giudicare i terroristi? L’Italia o gli Usa?
Per Craxi i reati erano stati commessi in territorio italiano, quindi si trattava di una questione di sovranità nazionale. I Vam (la Vigilanza dell’Aeronautica Militare) si disposero intorno agli aerei.
Ma nemmeno Reagan sembrava avere dubbi e la Delta Force, circondò armi in pugno i Vam. Immediata la contro-risposta: i carabinieri, a loro volta, accerchiarono gli americani. La tensione era al culmine: secondo il presidente Cossiga, se la Delta avesse tentato di prelevare i terroristi, i Vam e i carabinieri «avrebbero sparato».
Una crisi tra due Paesi alleati senza precedenti. Reagan, furibondo, telefonò a mezzo governo: da Andreotti a Spadolini, e poi ancora a Craxi. Niente da fare: alle 4 di notte, la Delta Force si ritirò. I terroristi scesero dall’aereo, ma non era ancora finita: Abu Abbas, il capo del commando e uno dei leader dell’Olp - che fingeva di essere solo un emissario - pretendeva di poter ripartire, mentre gli americani chiedevano almeno per lui l’estradizione. Un altro «No» secco dell’Italia che, alle 18 e 30, lo imbarcò su un aereo diretto a Belgrado, libero e sotto la protezione del maresciallo Tito. Una scelta a dir poco discutibile perché Abbas, nove mesi dopo, fu condannato all’ergastolo come mandante del dirottamento, mentre Majed Al Moloqui - l’assassino di Klinghoffer - prese 30 anni.
Comunque, fu forse quello il primo «No» dell’Italia agli Stati Uniti nell’intero dopoguerra, e i consensi nel Paese furono unanimi: una prova di indipendenza e di orgoglio nazionale.
Passarono gli anni. Poi, scoppiò la guerra in Iraq e il 15 aprile 2003 Abu Abbas fu arrestato dalle Forze speciali americane: protetto da Saddam Hussein, si trovava in una comoda villetta a Baghdad. Rinchiuso in carcere, morì un anno dopo, il 9 marzo 2004. Secondo il Pentagono, aveva avuto un attacco cardiaco. Ma non tutti ci scommetterebbero.
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