TELEVISIONE
Storie di amici, di libertà e di servizio pubblico

L’idea di servizio pubblico è perfettamente rappresentata e concretamente realizzata in una doppia produzione Rai che mi è capito di osservare di recente e che consiglio di recuperare. La prima s’intitola Io ero il milanese ed è un podcast che fatichi a non ascoltare tutto d’un fiato (su RaiPlay Sound), sebbene sia lungo assai, perché è un dettagliato e imprevedibile racconto, fatto essenzialmente da una chilometrica intervista. L’autore è Mauro Pescio, il protagonista è Lorenzo S., l’ambientazione è il combinato disposto tra carcere (Lorenzo ci entra per la prima volta a dieci anni) e banche da rapinare, con contorno di più o meno bella vita da bandito, così si definisce il protagonista: “bandito”.
La seconda creazione Rai che ben attua l’idea di servizio pubblico è una serie tv in due stagioni, Mare fuori (si ritrova su Netflix, è andata in onda su Rai 2), che mette in scena la vita, le amicizie, gli amori, gli errori, le logiche insane e quelle in via di guarigione di un istituto penitenziario minorile di Napoli, sotto il Vesuvio e di fronte al mare e negli sguardi di ragazze e ragazzi. C’è una brava Carolina Crescentini, a impersonare la dura direttrice del luogo di detenzione, c’è un bravo Carmine Recano, nei panni del saggio e sensibile comandante della polizia penitenziaria.
Le due storie incarnano il servizio pubblico nei corpi privati di libertà dei loro protagonisti e nelle voci dei loro racconti arrocate dal freddo degli sbagli e dei crimini e dei sensi di colpa. E lo fanno per alcune semplici ragioni. Intanto mostrano luoghi che amiano nascondere anche alle nostre riflessioni. Il carcere, per lo Stato come per l’individuo, è sempre e solo un problema, un incubo, un non luogo a occuparsene. E invece queste due creazioni molto diverse tra loro - il podcast soltanto di voce e soltanto di racconto cronachistico, molto poco sceneggiato; la serie tv tutta immagini, volti, colori, emozioni, e ovviamente molto ben sceneggiata - ti sbattono in faccia, con garbo e stimolo al pensarci, l’idea della privazione di libertà come bene o male necessario per avviare - si spera sempre - percorsi di nuova vita.
E questo è il secondo grande tema per cui siamo di fronte, finalmente, a servizio pubblico. La pena infatti a questo serve o dovrebbe servire: ad avviare percorsi di nuova vita, attraverso assunzioni di responsabilità, atti di giustizia riparativa e scoperte di ragioni per cui valga la pena vivere senza rischiare pene inflitte da tribunali o da colleghi criminali. Le sfumature dell’errore e del male e della colpa sono infinite e nei due racconti lo si dimostra, ma la forza del bene sta nella constatazione che si può essere liberi di rinascere anche quando non si è liberi di uscire da un edificio, all’apparenza per sempre imprigionati in un destino sbagliato o sfortunato o imposto. All’apparenza, però.
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