CONTROPASSATO PROSSIMO
Uno scatto preso quasi per caso

Nel 1945 Joe Rosenthal aveva 34 anni e, per la sua miopia, era stato scartato dall’esercito. La Associated Press lo aveva però assunto come fotografo di guerra. Spedito al seguito delle truppe nel Pacifico, il 23 febbraio si incamminò sul Monte Suribachi di Iwo Jima, un vulcano appena conquistato all’estremità dell’isola, alto 169 metri. I marines stavano innalzando una bandiera sulla cima e poteva ricavarne uno scatto. Dal febbraio 1943, dopo le battaglie delle Midway e di Guadalcanal, era iniziata la lunga controffensiva nell’Oceano Pacifico e due anni dopo, il 19 febbraio 1945, ormai a soli 1.045 km da Tokio, gli americani erano sbarcati a Iwo Jima.
L’isolotto serviva per intercettare i movimenti della flotta americana. Certo, un’impresa difficile: i 21 mila giapponesi avevano scavato una rete di tunnel sotterranei di 18 miglia e ricavato circa 5.000 tra caserme e fortini. Perentorio, poi, il loro ordine: difesa assoluta dell’isola, ogni soldato doveva uccidere almeno dieci americani. Il Suribachi era stato preso il quarto giorno, dopo una battaglia terribile. Così, con i colleghi Bob Campbell e Bill Genaust, Rosenthal salì sulla montagna. A metà incontrarono quattro marines. Stavano scendendo e uno di loro, Lou Lowery, li gelò: la bandiera era già issata. Erano le 10 e 37 minuti, ma decisero comunque di proseguire.
Nel frattempo però, in cima stava succedendo qualcosa. Secondo alcuni resoconti, il segretario della Marina, James Forrestal aveva deciso di riportare a Washington la bandiera della vittoria. Ma il comandante del battaglione voleva tenersela, così organizzò un secondo alzabandiera con un vessillo più grande, visibile da tutta l’isola.
I tre arrivarono in cima e Joe fece un cumulo di pietre, vi posò sopra alcuni sacchetti di sabbia e salì sulla pila. In quel momento passò Genaust: «Non sono di intralcio, Joe?», chiese. «No», gridò Rosenthal, ma con la coda dell’occhio vide sei marines, esausti e laceri, issare la grande bandiera stelle e strisce. D’istinto, senza mirare con l’occhio nell’obiettivo, ruotò la sua Speed Graphic e scattò. Naturalmente non sapeva cosa avesse esattamente immortalato così, per sicurezza, pochi minuti dopo radunò tutti i soldati sulla scena. Li dispose intorno alla bandiera e scattò un’altra foto, che poi titolò “Gung-Ho”, un grido di esultanza dei marines. Erano le 13 e 5 minuti. Scese dal monte e si affrettò a mandare il rullino alla Associated Press, a San Francisco.
Due giorni dopo la foto era sulle prime pagine di tutti i giornali americani. A Joe arrivarono congratulazioni entusiaste: era straordinaria, semplice, dinamica, trasmetteva energia, eroismo, il senso profondo della vittoria. Talmente perfetta che qualcuno gli chiese se fosse stata “apparecchiata”, se avesse lui posizionato i marines.
Qui nacque l’equivoco: Joe infatti, non avendo potuto vedere i giornali, pensò si riferissero a “Gung-Ho”, non all’alzabandiera. E rispose: «certo». Così, Rosenthal vinse il Pulitzer, ma si scatenarono le polemiche: la foto era in un certo senso falsa. Seguirono anche due inchieste, una di “Life Magazine” e una degli ufficiali militari, che confermarono la sua versione, ma le dicerie continuarono e Joe dovette difendersi fino al 2006, quando morì a 94 anni.
Eppure, forse vi era qualcosa d’altro su cui discutere. In realtà, nonostante quel secondo “alzabandiera”, Iwo Jima non era stata affatto conquistata, anzi.
La battaglia durò un altro mese, fino al 26 marzo, e costò la vita a 6.821 marines e 21 mila giapponesi. Probabilmente, la più sanguinosa della guerra nel Pacifico. Ma nel frattempo il governo ne aveva fatto un francobollo, la usava come immagine per vendere i Buoni del Tesoro, giravano milioni di poster, fu poi anche usata come modello per il cimitero nazionale di Arlington. E iniziò presto a comparire su tutti i libri di storia, come simbolo della vittoria e della potenza americana.
Potenza della mercificazione della guerra: un altro effetto collaterale dietro uno scatto preso quasi per caso.
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